“Cerco di trasmettere gioia e speranza ai miei malati di tumore”

Diego Soto de Prado, 34 anni, è padre di quattro figli e, con dieci anni di professione, è un esperto oncologo, medico e ricercatore, in un ospedale di Valladolid.

Campo di lavoro a Barretstown (Irlanda)

Oncologo, una vocazione per uomini di prestigio?

Fin da giovane ho avuto la certezza che il mio futuro sarebbe stato la medicina con tutto il significato “umano” che essa sottintende, ancor più in questa società in cui l’importanza della persona si è molto indebolita. Credo che la decisione di scegliere l’oncologia abbia origine e sia stata ribadita durante le tante estati che ho trascorso in Irlanda come assistente in un campeggio di bambini colpiti dal cancro, dove ho potuto avvertire il calore e l’affetto che questi malati ti trasmettono e quanto tu puoi fare per loro con un semplice sorriso.

Campo di lavoro a Barretstown (Irlanda)

Che cos’altro ti ha attratto?

"Il mio impegno non sta soltanto nel curare il corpo, ma è importantissimo trasmettere al malato gioia e speranza"

Naturalmente la scienza, la conoscenza e la comprensione della fisiopatologia umana, la ricerca...; credo che l’oncologia sia la specializzazione in cui meglio si rifletta la fusione tra l’umanesimo e la scienza.

Alla tua età si può avere già una certa esperienza?

Ho già avuto a che fare con migliaia di pazienti, dietro ai quali ci sono una vita, una famiglia e numerosi problemi da risolvere, non soltanto medici. Quando si dice a una persona che ha un tumore, il mondo gli cade addosso e spesso piomba in uno stato di depressione e di paura. È a questo punto che comincia il lavoro, perché il mio impegno non sta soltanto nel curare il corpo, ma è importantissimo trasmettere al malato gioia e speranza. La lotta contro questa malattia, abitualmente, è una specie di gara di fondo che bisogna affrontare dal primo momento con coraggio e vigore per poter arrivare al traguardo.

"Ho visto molti casi in cui per alcuni pazienti molto lontani da Dio la malattia si è trasformata in un incontro personale con Cristo"

Che cosa aiuta a sopportare meglio questa grave malattia?

I pazienti che hanno fede e visione soprannaturale affrontano il percorso con maggiore ottimismo e più spirito di lotta. Però il Signore ci ama per quello che siamo, suoi figli, e spesso sa estrarre da noi il meglio quando stiamo peggio. Ho visto molti casi in cui per alcuni pazienti molto lontani da Dio la malattia si è trasformata in un incontro personale con Cristo, si sono uniti alla sua croce e hanno accettato con più slancio e più speranza la propria situazione.

Al lavoro

In questo lavoro c’è soltanto sofferenza?

Ci sono anche grandi gioie, quando, dopo l'intervento, le persone percepiscono l'avvenuta guarigione, anche se per un po' ricevono cure mediche a scopo preventivo, per evitare ricadute. In altri casi il cancro non viene diagnosticato in tempo e la cura che prescrivo è palliativa, allo scopo di migliorare la qualità di vita e prolungare la sopravvivenza. Il rapporto con i malati diventa più intenso e bisogna guadagnarsi la fiducia e l’affetto al più presto, in modo da poter affrontare temi che vanno oltre il campo strettamente medico. Io cerco di favorire l’assistenza spirituale, che dovrebbe far parte del trattamento integrale sin dall’inizio, e più esplicitamente nelle tappe finali della malattia, quando la morte si fa presente. Proprio in quei momenti diventa indispensabile questo tipo di aiuto che può cambiare lo spirito e offrire l’unica consolazione davvero soddisfacente. È assai diverso l’atteggiamento di una persona credente e il modo di affrontare il momento estremo in cui si deve lasciare questo mondo!

"Nei Congressi il mio angelo custode riesce sempre a trovare per me una chiesa con un orario di Messa che si adatti alla mia agenda di lavoro, sia pure a costo di un’alzataccia"

È facile trasmettere un senso spirituale?

Non puoi immaginare fino a che punto dà sollievo ai malati terminali sentire parlare di Dio, del suo amore, della festa che li aspetta in cielo. Alcune famiglie si oppongono se il prete vuole far visita al malato o vuole impartirgli l’unzione degli infermi, ritenendo che il malato possa angosciarsi pensando alla morte imminente. In realtà, l’uomo è fatto di corpo e anima, e la salute dell’anima si ripercuote su quella del corpo. Quante volte ho visto migliorie fisiche – minor dolore, minor apatia, minor angoscia... – dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi o dopo una confessione fatta dopo anni di lontananza da Dio. E come una conversazione sincera, senza sotterfugi, con naturalezza, soprannaturale, parlando dell’aldilà, sia davvero qualcosa che sazia, che li rianima in una situazione di fine vita.

Con Virginia e i bambini in una tenuta dei miei genitori

Qualche esempio?

Quando visito i malati, sto sempre attento ad alcuni dettagli: se hanno il rosario appeso al letto o sul comodino, o una immagine della Madonna o del santo del loro paese, in modo da poter iniziare una conversazione su Dio. Molte volte accade che siano lontani da Dio, non praticanti, però da piccoli i genitori hanno trasmesso loro alcune credenze solide, e tutto lascia traccia. Così resti sorpreso dal fatto che alcuni di loro si confessano dopo molti, molti anni. Per esempio, il mese scorso ho avuto un paziente con una diagnosi di tumore molto avanzato e refrattario alle cure. Era separato, lontano da Dio; ma era una buona persona e da bambino era stato chierichetto nella sua parrocchia. Dopo alcuni giorni impiegati a guadagnarmi la sua fiducia, ho potuto avere con lui una conversazione molto profonda, piena di affetto e di comprensione.

In queste situazioni, vi sono malati che vogliono morire?

In un ambiente come quello di oggi, dove impera soprattutto la “cultura della morte”, in tanti anni di professione mai nessuno mi ha chiesto di voler ricorrere all’eutanasia. Il malato vuole vivere con una vita di buona qualità, senza dolori e senza sofferenze. Certe volte, quando assisti pazienti che hanno dolori insopportabili, l’unica cosa che chiedono è di “morire”; ma appena il dolore si attenua, più di prima desiderano vivere.

A Chicago in un Congresso di oncologia che raduna più di 30.000 oncologi di tutto il mondo

Viaggi anche molto in giro per il mondo?

"Ho anche imparato a trovare Dio in tutti gli aspetti della mia vita: nel lavoro, nella famiglia, tra gli amici, nei momenti di ozio... E questo per me è uno stimolo a sforzarmi per essere migliore come professionista, come marito, come padre, come amico"

I congressi di medicina, oltre a permetterci di approfondire le nostre conoscenze e a trasmetterci i progressi in campo medico, sono una eccellente occasione per conoscere nuovi colleghi e, perché no, fare apostolato. Molte volte la semplice coerenza di vita e la naturalezza rappresentano il modo migliore per riuscire a intavolare una conversazione a sfondo soprannaturale. Le persone si meravigliano che tu vada a Messa o entri in una chiesa per pregare. Inoltre il mio angelo custode riesce sempre a trovare per me una chiesa con un orario di Messa che si adatti alla mia agenda di lavoro, sia pure a costo di un’alzataccia. Un esempio è l’ultimo congresso al quale ho partecipato lo scorso mese di marzo a Copenaghen: delle due chiese cattoliche che vi sono in città, una era proprio accanto al mio albergo e la Messa era alle 8 del mattino – altre volte sono stato costretto ad alzarmi alle 5 –, e quindi ho potuto partecipare tutti i giorni. E questo non è un esempio isolato. Negli Stati Uniti, dove le distanze sono enormi, in città come Chicago, Miami, Atlanta, New York... ho avuto sempre la fortuna di poter andare a Messa e compiere gli atti di pietà ai quali sono abituato.

Sei stato a Belgrado, Houston...

Sì. A Belgrado sembrava di essere negli anni ’50: malati ammucchiati in grandi padiglioni, in pessime condizioni igieniche e senza attrezzature adeguate. Ci dicevano che quando le bombe cadevano sulla città, con il rischio di morte imminente, erano aiutati soltanto dalla preghiera e dal sentirsi amati da Dio. A Houston ho trascorso diversi mesi, formandomi in uno dei migliori ospedali oncologici del mondo. Là si viveva quasi nel lusso. Ho incontrato molti spagnoli, alcuni assai famosi. Ma anche in questo caso, era Dio a sostenere i malati.

Non ti senti un po’ solo in questi Congressi?

I miei viaggi all’estero sono serviti anche a farmi capire che l’Opera è una grande famiglia, che ti accoglie là dove ti trovi e nella quale ti senti come a casa tua. Praticamente non ho notato alcuna differenza tra stare in un Centro dell’Opus Dei a Dublino, a Budapest o a Varsavia o a Valladolid. L’affetto, la simpatia, l’ambiente accogliente e tante consuetudini sono a tal punto simili che mi sono sentito ben accolto, e ho potuto avere la prova del carattere universale di cui tanto parlava san Josemaría.

Come vanno le cose in famiglia?

Con i miei amici sul 'Pico Peña Prieta'

Ho quattro figli, ancora abbastanza piccoli. Grazie a Dio, mia moglie e io possiamo avvalerci di un grande aiuto, perché abbiamo a Valladolid le rispettive famiglie d’origine, ed entrambi lavoriamo fuori casa. Facciamo in modo che i bambini fin da piccoli imparino un po’ per volta le consuetudini cristiane e preghino in famiglia, affinché la casa sia, come diceva recentemente Benedetto XVI, una chiesa domestica. E qui posso contare sul pilastro più importante della mia vita: Virginia, mia moglie.

Immagino che riposerai, anche?

Con un lavoro così bello ma stressante e con una carica emotiva così intensa, cerco di fare brevi fughe in montagna, dove in qualche modo mi sento più vicino a Dio per il fatto stesso di stare in alto, e posso contemplare più da vicino la maestosa opera della creazione. Un mio amico e io abbiamo creato un gruppo di montagna che chiamiamo “terza domenica del mese”, perché abbiamo stabilito di fare un’escursione in quel giorno del mese. Il nostro punto d’incontro è una Messa di prima mattina; poi un paio di ore e siamo in vetta. In quell’ambiente è senz’altro molto naturale parlare di Dio con gli amici.

In definitiva...

Durante gli studi di medicina impari molta scienza, ma non è altrettanto adeguata la formazione bioetica, che ti appare di carattere sempre meno umanizzante. Ho la fortuna di ricevere regolarmente nell’Opus Dei una formazione umana e dottrinale, che mi serve da guida e riferimento per affrontare molte situazioni drammatiche che non è possibile risolvere con la semplice formazione accademica. Ho anche imparato a trovare Dio in tutti gli aspetti della mia vita: nel lavoro, nella famiglia, tra gli amici, nei momenti di ozio... E questo per me è uno stimolo a sforzarmi per essere migliore come professionista, come marito, come padre, come amico...

    J.L. García González