I primi cristiani, il lavoro e l’insegnamento di san Josemaría

Pubblichiamo il testo di una conferenza tenuta dal prof. Alberto Torresani il 6 giugno a Cosenza. Si inserisce nel dibattito ormai plurisecolare circa i fondamenti del lavoro umano.

La vita dei primi cristiani Dai documenti storici sopravvissuti è possibile ricostruire qual era la vita dei primi cristiani nei tre secoli di mancato riconoscimento del cristianesimo come religio licita da parte dell’Impero romano. Dagli Atti degli Apostoli veniamo a sapere che da subito i cristiani si occuparono di assistenza dei membri deboli della comunità, vecchi, donne, malati, vedove. Per provvedere ai compiti di assistenza furono istituiti i diaconi. Dalla Lettera a Diogneto veniamo a sapere che i cristiani non si distinguevano in nulla dai loro compagni, ossia per linguaggio, abito, casa ecc., ma che erano facilmente riconosciuti perché non praticavano l’aborto, non prestavano denaro a usura ed erano fedeli alle loro mogli. Dalle Passioni dei martiri veniamo a sapere che i primi cristiani erano presenti in tutti gli ambienti sociali, dagli schiavi ai liberti ai senatori, ciascuno impegnato a compiere i propri doveri umani e professionali. Se giungeva la persecuzione, molti l’affrontavano con coraggio, lieti di dare una testimonianza che li rendeva simili a Cristo. Ciò significa che i primi cristiani erano pienamente inseriti nella loro società, cercando di circoscrivere gli aspetti negativi o corrotti che essa presentava, rafforzandone gli aspetti positivi, per esempio dedicandosi alle attività di insegnamento comprendenti le parti della filosofia e della letteratura compatibili col cristianesimo. I primi cristiani, fin dal tempo di san Paolo, non si posero mai contro lo Stato romano, a differenza di qualche eretico che ritenne un errore collaborare con uno Stato persecutore.

Nascita e sviluppo degli Ordini religiosi     Cessate le persecuzioni e sopraggiunta la grande crisi del mondo antico, di fronte ai problemi della vita sociale non furono pochi coloro che attuarono una vera e propria fuga dal mondo, rinunciando a tutto come fecero Antonio eremita, Paolo del deserto e Pacomio cenobita, tre egiziani. A seguito della Vita di Antonio scritta da sant’Atanasio, protagonista della teologia che trionfò al concilio di Nicea, l’ideale monastico conobbe in oriente un successo a dir poco clamoroso, diffondendosi in Egitto, Siria, Palestina, Asia Minore. Con san Girolamo si ebbe la diffusione del monachesimo anche in occidente, con vari esperimenti culminati con la creazione di Montecassino da parte di san Benedetto. Crollato l’Impero romano d’Occidente, nei secoli che seguirono il monachesimo della regola benedettina divenne la più importante istituzione culturale e tutti ammettono che la sopravvivenza della cultura antica si deve alle cure dei monasteri medievali, vera e propria oasi di razionalità in mezzo a una società barbarica fondata sul mito del guerriero che con la spada risolve i problemi dell’esistenza. Il libro di Rodney Stark, La vittoria della ragione, Lindau, Torino 2006, risulta la più splendida rettifica di idee circa l’importanza del monachesimo per la rinascita europea. Si deve ai monaci la ripresa dell’agricoltura, la specializzazione dei raccolti e la creazione di fiere e mercati per venderli, il ritorno all’economia monetaria e alla democrazia, vissuta nei monasteri e comunicata come ideale ai nascenti comuni, la ripresa della cultura con la nascita e lo sviluppo delle università. Il successo dei monasteri fu in qualche modo eccessivo, perché all’inizio del Duecento esplose la protesta pauperista che accusava i monaci di avere dimenticato l’ideale della povertà, dal momento che apparivano meglio nutriti, alloggiati e abbigliati dei contadini rimasti molto indietro. Tale protesta fu seguita dalla creazione degli Ordini mendicanti, essenzialmente Francescani e Domenicani, che a loro volta hanno avuto un successo eccessivo perché il loro modello di povertà ha finito per imporsi come se fosse l’unico. San Francesco era figlio di un mercante ricco di Assisi, già immerso in un sistema capitalistico maturo, con commerci che lo portavano d’estate nelle Fiandre e nella Champagne, importando la lana inglese da lavorare nell’inverno successivo. Il figlio fu chiamato Francesco perché alla nascita il padre si trovava in Francia. La madre era di Piccardia e perciò insegnò al figlio a cantare in lingua francese. La storia medievale, a conoscerla bene, riserva molte sorprese. Dopo il concilio di Trento e dopo l’istituzione dei seminari diocesani per formare in modo adeguato il clero secolare, la funzione di Ordini e Congregazioni religiose divenne meno urgente e ci fu una loro specializzazione negli ambiti dell’assistenza, dell’istruzione, delle missioni preclusi al clero secolare.

Monachesimo e vita ordinaria     La storia del monachesimo e la sua evoluzione attraverso il tempo appare mirabile, ma esiste il pericolo che abbia collocato in secondo piano una realtà altrettanto importante, ossia il fatto che l’invito di Cristo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” sia stato rivolto a tutti i cristiani in qualunque stato di vita essi si trovino. La fuga dal mondo del monaco comportava l’abbandono della vita in città, il rifiuto di prendere parte alle attività della politica, della cultura, dello spettacolo, del divertimento, dello sport giudicate una perdita di tempo o una distrazione dalla contemplazione. Il monaco rifiutava anche l’esercizio di una professione, la medicina, il notariato, il commercio, l’insegnamento e l’esercizio dei numerosi mestieri che hanno il compito di rendere più facile la vita a tutti gli uomini che formano una comunità. Il lavoro è scambio di prestazioni professionali che comporta una specializzazione per raggiungere l’eccellenza. Il lavoro è anche occasione per esercitare la socievolezza, una virtù necessaria agli uomini. Il monaco metteva da parte tutto ciò ritenendo che fosse più urgente vivere da subito al cospetto delle realtà ultime che mettono in contatto con l’eternità: morte, giudizio, inferno, paradiso. Tutto ciò configura il monachesimo come una vocazione eccezionale, ossia non adatta a tutti coloro che comprendono il dovere di santificare tutte le realtà presenti nel mondo, che è buono come tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio, anche quando gli uomini fanno di tutto per renderlo poco vivibile.

La nascita dell’Opus Dei     Quando il 2 ottobre 1928 san Josemaria Escrivá “vide” l’Opus Dei come una chiamata universale alla santità, senza bisogno di abbandonare le attività ordinarie del lavoro e della vita famigliare, da appena undici anni era stato codificato il nuovo Codice di Diritto Canonico, ma risultò che in esso non c’era posto per inquadrare giuridicamente il suo carisma fondazionale. Il fatto non era nuovo nella storia della Chiesa: bisognava attendere che la vita suggerisse il nuovo inquadramento giuridico, secondo il detto “se son rose fioriranno”. San Josemaria Escrivá per tutta la vita ripeté che l’ideale modello era la vita dei primi cristiani, vissuti quando non esistevano gli Ordini religiosi, per i quali aveva somma venerazione, ma sempre ribadendo che l’Opus Dei non era l’ultimo anello del loro sviluppo. Egli era cresciuto in una famiglia normale, allegra, cristiana; da giovane aveva mostrato notevole inclinazione per lo studio e volentieri avrebbe fatto l’architetto, anche se in seguito optò per la giurisprudenza. Accettò il sacerdozio quando si rese conto che la Provvidenza gli assegnava il compito di realizzare qualcosa che ancora non riusciva a comprendere, pensando che in questa condizione poteva collocarsi meglio al servizio di Dio. Certamente non divenne sacerdote per far carriera ecclesiastica. Tutto il suo insegnamento finì per ruotare intorno al dovere di ogni cristiano di santificarsi nella situazione di vita e nel lavoro cui si sarebbe dedicato anche senza conoscere l’Opus Dei. Non a caso il papa Giovanni Paolo II lo ha definito “il santo della vita ordinaria”.

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo     Nel 1905 il grande sociologo tedesco Max Weber pubblicò un saggio fortunato, dal titolo quanto mai felice che equivale a un riassunto del suo contenuto. La tesi di Weber è che il protestantesimo, specialmente nella versione di Calvino, che sosteneva un’antropologia pessimista circa la natura umana dopo il peccato originale, radicalmente corrotta e giustamente condannata, si colloca all’inizio dello sviluppo grandioso di quel fenomeno che unifica il lavoro umano, il risparmio, il mercato, le materie prime, il commercio, la finanza dando vita all’economia politica in grado di rendere l’Europa padrona del mondo. Tuttavia, Calvino affermava che l’uomo non si salva per mezzo delle opere buone compiute in vita, bensì solamente per grazia, ossia per iniziativa divina. Il successo nella vita presente, perciò, appariva al fedele come segno della predestinazione alla salvezza. Detto in altri termini, quando si impiega il proprio denaro, non esiste differenza tra remunerazione equa e remunerazione usuraria, perché le azioni umane sono tutte ugualmente colpevoli, bensì occorre tener d’occhio un unico aspetto tecnico, quello della remunerazione più alta. Si dice che l’etica protestante è un’etica del successo, ossia che è importante il risultato finale dell’azione, non tanto l’intenzione dell’agente, risultando morale ciò che viene considerato tale dalle persone formanti l’opinione pubblica di un certo ambiente. Il protestante non ha il conforto della direzione spirituale con la confessione che può affinare la sua sensibilità morale: ha solamente la Sacra Scrittura che interpreta soggettivamente. Perciò il protestante lavora specialmente nelle attività di rischio e dal successo della sua intrapresa può dedurre se si salverà o meno. Il saggio di Weber è molto articolato e corredato da analisi statistiche indicanti che tra i cattolici, in campioni omogenei, prevalevano le attività tradizionali come agricoltura e piccolo commercio, mentre tra i protestanti prevalevano le attività di rischio, industria, grande commercio, finanza. Come è noto, i giornalisti semplificano le tesi scientifiche, anche quelli intelligenti come Montanelli, che per tutta la vita rimpiangeva il fatto che in Italia fosse mancata la riforma protestante e che perciò nel XVII e XVIII secolo ci fosse stata una stagnazione economica, da attribuire al cattolicesimo. Il dibattito, aperto un secolo fa, ha permesso di guadagnare molti punti fermi.

Il lavoro protagonista della storia umana     Per tutta la durata del mondo antico e medievale il prestito su interesse era stato condannato dalla morale corrente. Si pensava che non fosse lecito far generare al denaro altro denaro senza passare attraverso il lavoro. Anche il Corano condannava il prestito su interesse e perciò le banche islamiche aggirano la norma come se si trattasse di utili d’impresa. Gli ebrei ritenevano di non poter prestare su interesse ad altri ebrei, ma di poterlo fare con i gentili. Spesso i monasteri o alcuni Ordini religiosi come i Templari prestavano con un certo margine d’interesse, intuendo che per giustizia i pericoli propri di ogni prestito andavano remunerati. Abbiamo accennato al fatto che la tecnica capitalistica in Italia era perfettamente matura nel XII e XIII secolo e che per svilupparsi il capitalismo ha bisogno di istituti di credito, nonostante le riserve della cultura ecclesiastica e dell’etica classica che proprio in quel momento veniva riscoperta sui testi di Aristotele. Si pensava di poter aggirare la norma che vietava l’usura iscrivendo nel registro della partita doppia anche Domineddio, o una voce equivalente, che compariva sempre nei testamenti sotto forma di lasciti per opere pie, dal momento che il peccato di furto si estingue col pentimento, ma che occorre anche la restituzione del maltolto. Si tratta di un evidente ritardo della dottrina filosofica. I Francescani, più vicini alle esigenze della povera gente, compresero per primi la necessità di istituire i Monti di Pietà, dove “monte” significa un capitale radunato dalle offerte dei ricchi. Col passare del tempo ci si rese conto che il Monte di Pietà esauriva il capitale se prestava alla pari. Verso la fine del XV secolo, al tempo di Lodovico il Moro signore di Milano, fu istituito un Monte di Pietà che prevedeva una remunerazione del 5% del capitale prestato. In questo modo il Monte di Milano poté operare fino al 1797, quando fu requisito da Napoleone per rifornire i suoi soldati. Nel secolo XVI, la famosa scuola di Salamanca promossa da quel genio che fu Francisco da Vitoria, il fondatore del diritto internazionale, comprese che ogni lavoro deve essere remunerato, e che anche il servizio bancario era un lavoro, sempre ricordando che l’interesse non doveva superare una soglia al di là della quale scattava l’usura, ossia una ingiusta remunerazione del denaro prestato. Quando esplose la Riforma protestante, certamente avvenne un irrigidimento dei cattolici sulle questioni finanziarie, mentre tra i protestanti si diffuse il sistema di grandi società anonime che radunavano capitali ingenti, per esempio con la formazione della Compagnia delle Indie Orientali olandese che monopolizzò il commercio delle spezie asiatiche. Tuttavia, anche questa circostanza chiarì che ormai erano i poveri a finanziare i ricchi e non viceversa, come accadeva un tempo quanto i poveri erano preda degli strozzini. Il prestito sotto forma di risparmi dei poveri era giusto che fosse remunerato. Nel secolo XVIII avvenne con Adam Smith la creazione di un modello razionale di economia politica in grado di chiarire che la ricchezza delle nazioni era prodotta dal lavoro umano, non dal possesso di metalli preziosi o materie prime. Quest’opera comparve nel 1776, proprio quando le Tredici colonie inglesi d’America si proclamarono indipendenti, iniziando un’epopea di lavoro, di colonizzazione, con libertà di commercio, di impresa, di credito che ha promosso la rivoluzione industriale, con le conseguenze sociali e politiche seguite anche in Europa a partire dalla rivoluzione francese.

Sviluppi del marxismo     Sono passati pochi anni dalla caduta teorica e pratica del marxismo e ora siamo in grado di comprendere il motivo principale del suo fallimento, così come siamo in grado di prevedere il fallimento delle forme estreme assunte dalla globalizzazione ora imperante. A Marx l’economia politica classica sembrò una sovrastruttura borghese per giustificare il proprio potere. Ritenne di avere scoperto il punto debole dell’economia politica borghese in una legge che definì tendenza alla caduta del saggio marginale dei profitti. In termini semplificati ritenne che nel giro di pochi anni tutto il capitale di impresa sarebbe finito nelle mani di pochi oligopolisti e che i proletari, consapevoli di poter perdere solamente le proprie catene, si sarebbero ribellati, avrebbero imposto la dittatura del proletariato, per poi distruggere lo Stato coi suoi apparati repressivi e le classi sociali. Era la creazione del capitalismo di Stato che alla prova di fatti ha prodotto più sprechi, disuguaglianze e corruzione dei regimi capitalisti borghesi.

La dottrina sociale della Chiesa     A partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII la Chiesa cattolica ha trovato nel proprio tesoro di dottrine gli elementi per redigere un insegnamento che recentemente è stato riunito in un volume di notevole importanza, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, a cura del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. In questa sede possiamo dire solamente che col Genesi la Chiesa era in possesso della dottrina vera circa il lavoro, dove si afferma che “Dio creò l’uomo perché lavorasse” dal momento che “l’uomo è fatto per il lavoro come l’uccello per volare”. Il peccato originale non comportò l’obbligo grave del lavoro, bensì solamente la fatica a volte avvilente che esso comporta. Occorre ricordare che la civiltà classica greco-latina considerò sempre il lavoro manuale come attività degna di schiavi, considerando adatti all’uomo libero solo i negozia al servizio dello Stato e gli otia intellettuali per la propria crescita interiore. Occorre ricordare che quando la Chiesa raccomandava il riposo festivo per gli addetti ai lavori materiali, mentre non prevedeva l’astensione dal lavoro intellettuale, faceva qualcosa a favore dei più umili. Nella storia della Chiesa è sempre stata presente la preoccupazione per quella frangia di persone marginali –bambini, malati, vedove, anziani- incapaci di provvedere a se stessi. I riformatori protestanti nel XVI secolo consideravano la povertà conseguenza della pigrizia e di altri vizi, abbandonando i poveri al braccio secolare della legge. I pastori protestanti, coniugati, finivano per appartenere alla classe media della popolazione e non si curavano dei poveri considerati dei devianti, a differenza di quanto facevano le grandi imprese caritative di cui è così ricca la storia della Chiesa dagli ospedali, agli orfanotrofi, ai cronicari, alle scuole per sordi e muti, formanti il mirabile capitolo dell’assistenza che ai nostri giorni ha conosciuto nuovi capitoli come la congregazione di madre Teresa di Calcutta. Le grandi encicliche sociali del papa Giovanni Paolo II hanno completato l’edificazione della dottrina sociale della Chiesa in un modo che appare mirabile a tutti coloro che lo accostino senza pregiudizi ideologici.

San Josemaria Escrivá     Il fondatore dell’Opus Dei non ha mai affrontato sul piano teoretico i problemi del lavoro. La sua indagine è frutto di una conoscenza per amore che lo ha portato a identificarsi con la Chiesa, con la Scrittura, facendo tesoro dell’esperienza della sua famiglia e della sapienza frutto di una vita di fede autentica. Egli ha meditato e fatto comprendere l’importanza dei trent’anni di vita ordinaria vissuti da Cristo nella bottega di Giuseppe, assorbito da un lavoro costante al servizio di coloro che avevano bisogno degli oggetti fabbricati in quella bottega. Se il Figlio di Dio ha fatto il falegname, qualunque altro lavoro, compreso quello domestico, possiede una dignità assoluta e diviene via di salvezza che permette di giungere alla vita eterna. Il lavoro ben fatto è scuola di tutte le virtù divenendo occasione di incontro con gli altri uomini ai quali occorre comunicare il Vangelo di Cristo. Infine dalla qualità del nostro lavoro dipende la felicità di coloro che ci circondano, oltre alla nostra.

Interessanti argomentazioni sul tema trattato si possono trovare nel libro di Paolo Zanotto: Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo. Dottrina cristiana ed etica del lavoro, Rubbettino e Leonardo Facco editori, Soveria Mannelli 2005.

Prof. Alberto Torresani