La carità cristiana nel modo di parlare

Mormorare, criticare o diffondere dicerie può essere occasione per mancare gravemente alla carità. Questo editoriale vuol fare eco all’invito di Papa Francesco a non parlare la “lingua dell’ipocrisia”.

Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8, 31-32). Durante un lungo dialogo con i giudei nasce questa promessa del Signore che, nella sua semplicità e solennità, attraversa i secoli: la verità ci fa liberi. Ma attraversano i secoli anche le false promesse di colui che è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna (Gv 8, 44).

“La ragione più alta della dignità umana – insegna il Concilio Vaticano II – consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio” (Gaudium et Spes, 19). Si può dire che la parola – la necessità di vivere in dialogo, in comunione – è la più importante caratteristica della persona. Nella parola si comunica la persona stessa: quando parliamo, non ci limitiamo a emettere un messaggio, ma in un certo senso consegniamo noi stessi. Non soltanto arriviamo all'orecchio degli altri, ma al loro cuore, al centro del loro essere. Ecco perché la parola ha una dimensione in qualche modo sacra. Il suo uso corretto fa bene, edifica le persone, mentre le parole scorrette maltrattano gli altri. Lo percepì profondamente Aleksandr Solzhenitsyn: le menzogne – sosteneva – non sono parole che diciamo e che rimangono a galleggiare nell'aria, lontano da noi, ma ogni menzogna ci corrompe all'interno, fino a consumarci le viscere.

Il tono dei primi cristiani

Il Signore, nella sua predicazione, invita tutti alla trasparenza; a essere semplici, a evitare le situazioni che spesso coprono, o almeno danno inizio, alla menzogna: sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno (Mt 5, 37). Durissimo contro l'ipocrisia, il Signore loda con gioia coloro nei quali non c'è doppiezza né inganno (cfr. Gv 1, 47).Il suo è un tono, un modo di fare, che penetrò profondamente nei primi cristiani: la lettera di Giacomo contiene accenti simili: il vostro “sì” sia sì, e il vostro “no” no, per non incorrere nella condanna (Gc 5, 12). San Pietro consiglia loro di respingere ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza per potersi avvicinare a Dio, come bambini appena nati che bramano il puro latte spirituale (1 Pt 2, 1-2).

Questa innocenza cristiana nella parola, tuttavia, non si ottiene con una semplice intenzione generica, buonista: la tensione tra verità e menzogna è presente in tutto l'arco della nostra vita. La Scrittura non si limita a enunciare i principi, ma indica nei particolari gli abusi della parola, la mancanza di nesso tra ciò che si è, e ciò che si dice. In tal senso, appare da antologia e di perenne attualità l'ammonimento di Giacomo sulla lingua:

Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. Quando mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e vengano spinte da venti gagliardi, sono guidate da un piccolo timone dovunque vuole chi le manovra. Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose [...]. Ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di essere marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare (Gc 3, 2-8).

La medesima sollecitudine a “tenere a freno” la lingua è molto presente nell'insegnamento di Papa Francesco. Con la stessa insistenza dell'Apostolo, non perde occasione di chiedere a noi cristiani di sforzarci di mettere un freno alla parola che distrugge. Il Papa sa che la sua chiamata al rinnovamento della vita dei cristiani e della Chiesa resterebbe lettera morta se non arrivassimo a quel piccolo timone che governa il corso della nave.

Tutti noi siamo grati per la franchezza con cui parla il Successore di Pietro, benché corriamo il rischio di pensare troppo in fretta che si rivolge agli altri, e voltiamo pagina senza domandarci in che misura i nostri abiti attuali o i modi socialmente accettati di comportarci in questa materia siano consoni al Vangelo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (cfr. nn. 2464 ss.) e il Magistero di Papa Francesco offrono molti spunti per la riflessione.

La menzogna, linguaggio dell'ipocrisia

Con che delicatezza ci sforziamo di amare e dire sempre la verità, evitando in modo assoluto la menzogna? Infatti, non possiamo dimenticare la gravità della menzogna, che “è un'autentica violenza fatta all'altro. Lo colpisce nella sua capacità di conoscere, che è la condizione di ogni giudizio e di ogni decisione. Contiene in germe la divisione degli spiriti e tutti i mali che questa genera. La menzogna è dannosa per ogni società; scalza la fiducia tra gli uomini e lacera il tessuto delle relazioni sociali” (Catechismo, n. 2486).

Il Papa ha parlato con energia del linguaggio dell'ipocrisia, caratteristico di coloro che non amano la verità. Amano soltanto se stessi, e così cercano di ingannare, di coinvolgere l'altro nella loro menzogna, nella loro bugia. Loro hanno il cuore bugiardo, non possono dire la verità (Omelia, 4-VI-2013). Come san Pietro, ricorda l'innocenza dei bambini, il puro latte spirituale (1 Pt 2, 2): un bambino non è ipocrita, perché non è corrotto. Quando Gesù ci dice: 'Il vostro parlare sia 'Sì, sì! No, no!' con anima di bambini, dice il contrario del parlare di questi [...]. Chiediamo oggi al Signore che il nostro parlare sia il parlare dei semplici, quello dei bambini; parlare da figli di Dio, parlare nella verità dell'amore (Omelia, 4-VI-2013).

La mormorazione: imparare a mordersi la lingua

Nel sermone della montagna Gesù va alla radice del quinto comandamento del decalogo: Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi ha ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio [...]; e chi gli dice pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna (Mt 5, 21-22). Le parole del Signore sono dure, ma il fatto è che chi entra nella vita cristiana, chi accetta di percorrere questa strada, ha esigenze superiori a quelle degli altri. Non ha vantaggi superiori. No! Esigenze superiori (Omelia, 13-VI-2013). La mormorazione e l'insulto non si riducono a un rilancio innocente: uccidono il fratello. Scrive san Josemaría: Lo sai che danno puoi causare scagliando una pietra con gli occhi bendati? Nemmeno sai quale danno, a volte grave, puoi causare lanciando maldicenze che ti sembrano lievissime perché i tuoi occhi sono bendati dalla leggerezza e dalla passione (Cammino, n. 455). Per questo, prosegue il Papa, quando nel cuore hai qualcosa di negativo contro qualcuno, e lo manifesti con un insulto, con una maldicenza o con rabbia, c'è qualcosa che non funziona, e ti devi convertire, devi cambiare (Omelia, 13-VI-2013).

A chi pensa che, in ogni caso, è giustificabile parlare male di qualcuno perché “se lo merita”, il Papa fa questa raccomandazione: Vedi e prega per lui. Vedi e fa' penitenza per lei. Poi, se è necessario, parla a quella persona che può risolvere il problema. Ma non ne parlare con tutti [...]. Paolo è stato un grande peccatore. E dice di se stesso: prima ero un persecutore, un bestemmiatore, un violento. Però mi è stata usata misericordia. Forse nessuno di noi bestemmia. Ma se qualcuno di noi mormora, è certamente un persecutore e un violento (Omelia, 13-IX-2013).

Inoltre bisogna tener conto dell'effetto devastante che questa condotta ha nella vita familiare, sociale ed ecclesiale; si tratta di una pioggia sottile che sembra innocente ma corrode tutto: Oggi ognuno deve domandarsi: faccio crescere l'unità nella famiglia, nella parrocchia, nella comunità, o sono un chiacchierone, una chiacchierona? Sono un motivo di divisione, di malessere? Voi non sapete il danno che fanno alla Chiesa, alle parrocchie, alle comunità, le chiacchiere! Fanno danno! Le chiacchiere feriscono. Un cristiano, prima di aprire bocca, deve mordersi la lingua (Omelia, 25-IX-2013).

La diffamazione e la necessità di riparare

È bene tenere presente che non basta che una cosa sia o sembri vera perché possa essere tranquillamente divulgata. “Il diritto alla comunicazione della verità non è incondizionato. Ognuno deve conformare la propria vita al precetto evangelico dell'amore fraterno. Questo richiede, nelle situazioni concrete, che si vagli se sia opportuno o no rivelare la verità” (Catechismo, n. 2488).

Molte volte il cosiddetto interesse informativo (tanto di chi parla come di chi ascolta) in realtà è una mascherata finzione irrispettosa, dovuta a pettegolezzi o dicerie, insinuazioni e affermazioni calunniose su persone e istituzioni, che si gonfiano senza che vi siano molte possibilità di correggerle.

Per questo motivo, in questi casi riparare è un dovere di coscienza. Il Catechismo lo ricorda in questi termini: “Ogni colpa commessa contro la giustizia e la verità impone il dovere di riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato. Quando è impossibile riparare un torto pubblicamente, bisogna farlo in privato; a colui che ha subito un danno, qualora non possa essere risarcito direttamente, va data soddisfazione moralmente, in nome della carità. Tale dovere di riparazione riguarda anche le colpe commesse contro la reputazione altrui” (n. 2487).

Vale la pena, pertanto, rivedere il nostro atteggiamento nei confronti della leggerezza con cui siamo soliti trattare nelle conversazioni e nei commenti – anche tra cristiani – l'intimità e la fama degli altri, magari adducendo come giustificazione di limitarsi a ripetere notizie o dicerie dette da altri! Le chiacchiere – ribadiva il Papa - feriscono; le chiacchiere sono schiaffi alla fama di una persona, sono schiaffi al cuore di una persona (Omelia, 12-IX-2014). Possiamo anche riflettere sul nostro modo di reagire alla disinvoltura con cui diventa una cosa normale criticare le persone (dalla vicina del piano di sopra fino al politico o al calciatore che appare in televisione), a parole o per iscritto, in maniera acida o malevola, senza indulgenza, arrivando con grande naturalezza fino alla denigrazione e all'insulto, senza nessuna possibilità che la critica sia costruttiva per nessuno.

Che cosa cerchiamo? Come ci permettiamo di diffondere notizie o dicerie senza sapere esattamente se sono vere? Tra l'altro, anche quando abbiamo una informazione certa sugli altri, dobbiamo trattarla con prudenza e discrezione, per non diffamare né scandalizzare o provocare ulteriori danni (cfr. Catechismo, nn. 2477 e 2479). Il rischio è di permettere che si addormenti la nostra sensibilità e non riusciamo a respingere questi comportamenti o a percepire che ci siamo dentro fino al collo. Se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? (Mt 5, 13). Siamo noi cristiani ad avere la missione, e la grazia, di mantenere nel mondo l'aria libera e limpida della verità. Oggi, quando l'ambiente è pieno di disobbedienza, di mormorazione, di intrighi, di inganni, dobbiamo amare più che mai l'obbedienza, la sincerità, la lealtà, la semplicità: il tutto, con senso soprannaturale, che ci renderà più umani (Forgia, n. 530).

Per ottenere la pace

Nell'incontro con i presidenti di Israele e della Palestina per pregare per la pace, il Papa ha pronunciato una preghiera che, verso la fine, chiedeva: Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, in modo che la parola che ci porta all'incontro sia sempre “fratello” (Discorso, 8-VI-2014).

La verità che ci rende liberi (cfr. Gv 8, 31-32) non consiste semplicemente nel possesso o nella trasmissione di enunciati e informazioni che corrispondono alla realtà delle cose. È qualcosa di più profondo: la verità, su cui si basa la sincerità e la lealtà verso gli altri, in tutte le sue forme, è che tutti noi uomini siamo fratelli, figli dello stesso Padre.

Gesù ci ha dimostrato con la sua vita, veritatem faciens in caritate (cfr. Ef 4, 15), l'armonia di fondo tra la verità e l'amore. La verità che libera, che porta la pace, sta nell'eminente manifestazione dell'amore di Dio per gli uomini, che è la Croce redentrice: Come vorrei che per un momento tutti gli uomini e le donne di buona volontà guardassero la Croce! Lì si può leggere la risposta di Dio: lì, alla violenza non si è risposto con la violenza, alla morte non si è risposto con il linguaggio della morte. Nel silenzio della Croce tace il fragore delle armi e parla il linguaggio della riconciliazione, del perdono, del dialogo, della pace (Omelia, 7-XI-2014).

R. Valdés e C. Ayxelà