Studentesse volontarie nei villaggi peruviani

Durante l'estate, 28 studentesse, per la maggior parte iscritte all’Università Campus Bio-medico di Roma sono state protagoniste di un progetto di cooperazione universitaria in Perù, che aveva come obiettivo l'educazione igienico-sanitaria rivolta alle donne e ai bambini. Ecco il racconto fatto da due di loro.

“Siamo in Sud America, in Perù. Basta poco per rendersi conto di essere davvero in un altro mondo: qui i ritmi sono lenti, rilassati, le facce, le case, le strade, raccontano una realtà dura, vera, perfino le stelle sopra di noi non sono quelle che vediamo nella nostra Italia. Vediamo carretti trainati da asini e poche automobili, per lo più vecchie e arrugginite, uomini che cercano tra i rifiuti e donne con grandi cappelli e grembiuli che non ti negano mai un caldo sorriso. Qui le giornate cominciano prima, e a svegliarci sono il canto del gallo e quello dei bambini della scuola dove alloggiamo.

Risiediamo in una scuola a San Vicente de Cañete, nei pressi di Condoray, un Centro di Formazione professionale per la donna sorto per impulso di San Josemaría, e che dal 1963 svolge le sue attività, finalizzate alla formazione umana e cristiana delle contadine della zona. In questi anni Condoray ha contribuito molto a elevarne il livello di vita, sia dal punto di vista culturale che economico e sociale, e a renderle così capaci di divenire protagoniste dello sviluppo delle comunità in cui vivono. Attualmente le iniziative del Centro si sviluppano a beneficio di un'area rurale che comprende tredici villaggi vicini a San Vicente de Cañete. Sono villaggi molto poveri, in una situazione di grave arretratezza socio-economica, privi di luce elettrica, di acqua corrente, di vie di accesso praticabili. 

Dopo colazione, ogni mattina partiamo alla volta dei villaggi intorno a S. Vicente de Cañete con un forte desiderio di darci da fare. Passiamo le nostre giornate tra la gente, con le mamitas e i bambini: ci sono mille cose da fare e pur essendo in 28, giovani e forti, a fine giornata la stanchezza si fa sentire e l'elenco delle cose da fare il giorno dopo è sempre più lungo.

I bambini hanno visetti sporchi, occhi vivi e intelligenti, sono malvestiti, ma basta un loro spontaneo sorriso e ogni nostra difesa crolla; anche se poche di noi parlano lo spagnolo, la comunicazione non è difficile, spesso ci insegnano loro stessi, divertiti, le parole che non conosciamo. Andiamo a far visita ad alcune famiglie, ed è un’esperienza forte: le case sono fatte di canne e di fango, si vive, si cucina e si dorme tutti nella stessa stanza, spesso senza finestre. Fuori dalle case ci sono lunghi fili sui quali sono stesi ad asciugare bucati coloratissimi che danno al paesaggio un tocco di allegria e spensieratezza.

Il nostro lavoro è quanto mai vario. Facciamo lavori di manutenzione per migliorare i locali dove si svolgono le attività: girano vernici, chiodi, carta vetrata, e anche se a volte il risultato non è dei migliori, non manca mai tanta buona volontà. Gli ambulatori di medicina di base e cura delle ferite ci permettono di farci un’idea sulla situazione epidemiologica e sulle reali necessità nell’ambito dell’assistenza sanitaria; le attività ricreative e la merenda con i bambini sono sicuramente la parte più divertente, ma anche la più faticosa! Completiamo dei questionari sullo stato di salute e nutrizione dei bimbi; il laboratorio di risoluzione dei problemi ci permette di mettere a fuoco i target su cui lavorare non solo mentre siamo qui, ma anche dopo il ritorno in Italia. Abbiamo improvvisato brevi lezioni di igiene di base, ovvero come lavarsi mani e piedi; abbiamo portato avanti un protocollo sull’efficacia dei trattamenti contro la pediculosi che, passate le remore iniziali, è stato istruttivo e stimolante.

Abbiamo fatto mille cose diverse ma un posto speciale va dato alle lezioni di educazione sanitaria che abbiamo svolto per le mamitas dei villaggi e alle donne di Condoray, le cui responsabili ci hanno guidato, sostenuto e appoggiato nella nostra avventura, facendoci sentire proprio come a casa. Ci siamo sentite davvero utili, e abbiamo avuto la percezione di trasmettere qualcosa che sarebbe rimasto anche dopo il nostro ritorno in Italia. 

Siamo partite dall’Italia sapendo che forse non avremmo potuto realizzare tutto quanto avevamo programmato, ma che avremmo offerto il meglio di noi stesse. Siamo tornate incredule per quanto quella gente ci ha dato: siamo cresciute, ci siamo messe alla prova, abbiamo imparato che la generosità può esistere anche in condizioni di povertà estrema, che il lavoro di squadra può essere vincente e diventare la forza del singolo. Nessuna di noi si è risparmiata e tra di noi c’era voglia di crescere, di imparare, di sentirsi unite per fare il massimo. Siamo tornate da questo viaggio un po’ più mature, un po’ più consapevoli di quanto ancora ci sia da fare e con tante amiche in più. 

Questo è solo l’inizio… dobbiamo lavorare tanto, siamo un state un’ottima squadra e speriamo di poter essere un riferimento per tutti coloro che credono in questo progetto e che, insieme a noi, lo porteranno avanti. Al rientro, abbiamo cominciato un lavoro intenso sui risultati scientifici raccolti attraverso l’attività medica e le interviste, raccolte per uno studio epidemiologico, in modo da mettere al servizio delle persone che ne hanno bisogno la nostra professionalità”.