Il cristianesimo borghese

Nel paragonare il regno di Dio a un tesoro per il quale uno vende tutto, Gesù allontana il cristianesimo da valori come la sicurezza o la stabilità, per centrarlo sul rischio, sulla missione, sull’avventura di migliorare il mondo.

In una delle sue Lettere san Josemaría fa una diagnosi che oggi conserva tutta la sua attualità: «Ricorre spesso, anche tra cattolici che sembrano responsabili e osservanti, l’errore di pensare di dover adempiere soltanto i propri doveri famigliari e religiosi, senza preoccuparsi troppo dei doveri civici»[1]. Subito dopo chiarisce che abitualmente «non è egoismo, ma solo mancanza di formazione, perché nessuno ha mai detto loro chiaramente che la virtù della pietà, parte potenziale della virtù cardinale della giustizia, e il senso di solidarietà cristiana si concretizzano anche nell’essere attenti a identificare e a contribuire a risolvere i problemi che interessano l’intera comunità»[2].

Un cristianesimo individualista?

Queste carenze nella formazione della coscienza cristiana non sono dovute soltanto a problemi nella catechesi o nell’educazione religiosa, ma sono anche il risultato delle trasformazioni mentali e sociali sopraggiunte in epoca moderna. Potrebbero essere, in buona misura, conseguenza di una nuova cultura che le persone hanno acquisito un po’ per volta, come per osmosi, fin dalla nascita.

Questa è la spiegazione che dà Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi, quando si domanda come è sorta nella modernità l’idea che «il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo»[3]; o, anche, «come si è arrivati a interpretare la “salvezza dell’anima” come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza»[4]. Entrambe le idee, spiega, sarebbero il risultato di una secolarizzazione della nozione cristiana di speranza. Quello che è successo è che in epoca moderna le grandi possibilità aperte dal progresso scientifico e dalle nuove forme di organizzazione sociale hanno fatto pensare che l’essere umano fosse in grado di ristabilire, esclusivamente con i propri mezzi, il «paradiso perduto». In tal modo la redenzione del mondo è diventata una cosa che «non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi»[5]: la scienza e le strutture politiche ci porteranno quel paradiso che la religione sembra capace solo di promettere per l’altra vita.

In questo processo di secolarizzazione la religione non scompare, ma si privatizza; vale a dire, rimane circoscritta all’ambito della vita individuale. Nell’ambito pubblico e sociale, Dio non sembra più necessario per affrontare le sfide umane. Inoltre, col passare del tempo, si arriva ad affermare che la limitazione della religione alla vita privata assicurerà la pace nelle società in cui i cittadini professano religioni diverse o sono atei. Questo modo di intendere il posto che ha la religione nella vita sociale spesso è stato interiorizzato anche dagli stessi credenti, fino al punto di portarli ad adottare atteggiamenti che nei tempi moderni sono diventati il bersaglio di una delle critiche più abituali verso la religione. Secondo questa critica la speranza cristiana consisterebbe in un «puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata»[6]. Si rimprovera ai cristiani che ciò che per loro è veramente importante non è questa vita, ma assicurarsi un posto in quella futura.

Tuttavia, nulla è più lontano dalla realtà del vangelo, che ci fa prossimi di ogni uomo bisognoso di aiuto (cfr. Lc 10, 36-37). La nostra fede «implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra»[7]. San Josemaría lo diceva con forza: un cristiano deve darsi da fare affinché «ci siano sempre meno poveri, ignoranti, anime prive di fede, disperati, meno guerre e meno insicurezza, più carità e pace»[8]. Allo stesso tempo, come ha ricordato Papa Francesco, la Chiesa non è una ONG e deve stare in guardia per evitare le diverse modalità di mondanizzazione[9], mettendo sempre al centro di ogni sua attività – anche sociale – Cristo.

Così la chiamata a contribuire allo sviluppo del regno di Dio ha bisogno di armonizzare due principi: da un lato, la consapevolezza che questo regno è un dono[10] e non qualcosa che possiamo ottenere con le nostre sole forze; dall’altro, la convinzione che per Dio non è affatto indifferente il nostro desiderio di fargli sempre più spazio nella nostra vita. Sta realmente nelle nostre mani la possibilità di aiutare ad aprire «il mondo all'ingresso di Dio: della verità, dell'amore, del bene. [...] Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro»[11]. Inoltre, anche se da «quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili»[12], la virtù della speranza ci permette di constatare che è Dio colui che, alla fine, guida la Storia.

Le crisi mondiali

Fin dagli inizi dell’Opus Dei san Josemaría invitava quelli che gli si avvicinavano a dedicare la propria vita a lavorare per il regno di Dio con questa ardente massima: Regnare Christum volumus! Proprio in una omelia sulla speranza cristiana lasciò scritto: «Il Signore non ci ha creato per darci quaggiù una città definitiva [...]. Senza dubbio noi figli di Dio non dobbiamo disinteressarci delle attività terrene, nelle quali Dio ci colloca perché le santifichiamo [...]. Questa è stata la mia costante predicazione fin dal 1928: urge cristianizzare la società, portare a tutti i livelli della nostra umanità il senso soprannaturale, e poi impegnarci insieme a elevare all’ordine della grazia il dovere quotidiano, la propria professione, il proprio mestiere. Così, tutte le occupazioni umane saranno illuminate da una speranza nuova»[13].

Per ottenerlo, è di estrema importanza che Cristo regni nel cuore di ogni persona, dato che il regno di Dio non si riduce a una forma concreta di organizzazione sociale, né è il risultato di un insieme di strutture umane[14]. Affinché i cristiani siano sale e lievito nella società civile, la prima cosa che debbono fare è coltivare la loro relazione con Dio. «Il regno di Cristo deve instaurarsi nei cuori perché ciascuno glorifichi Dio non solo individualmente, ma anche in comunione con gli altri nella Chiesa e nella società civile», dove i cristiani sono chiamati a essere sale e lievito [...]. Cristo regna pienamente soltanto nel cuore di chi vuole che regni anche nella società nella quale vive»[15].

Un noto punto di Cammino esprime questa convinzione in modo lapidario: «Un segreto. – Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi. – Dio vuole un pugno di uomini “suoi” in ogni attività umana. – Poi... “pax Christi in regno Christi” – la pace di Cristo nel regno di Cristo»[16]. Si capisce chiaramente che san Josemaría non concepiva la vita cristiana come un qualcosa di semplicemente intimista, ma come un impulso che riguarda tutte le dimensioni umane, incluse quelle sociali[17]. In un altro documento scrive: «Questo è il tuo compito di cittadino cristiano: contribuire a far sì che l’amore e la libertà di Cristo presiedano tutte le manifestazioni della vita moderna: la cultura e l’economia, il lavoro e il riposo, la vita di famiglia e la convivenza sociale»[18]. Rispettando la libertà degli altri, i cristiani sono chiamati a portare dappertutto la luce del Vangelo.

Il nucleo del messaggio dell’Opus Dei, la ricerca di Dio nel lavoro e nella vita ordinaria, proclama che il mondo è un luogo di incontro con Dio. Lo ricorda il Concilio Vaticano II insegnando che noi cristiani siamo chiamati a redimere le strutture temporali dall’interno mediante il lavoro professionale e collaborando con gli altri cittadini[19]. Alla radice di questo insegnamento si trova la verità della creazione: «Dal momento che, eccettuando il peccato, il mondo e quanto vi è in esso è buono, perché è opera di Dio nostro Signore, il cristiano, conducendo costantemente una lotta positiva d’amore per non offendere Dio, deve impegnarsi in tutte le attività terrene, gomito a gomito con i suoi simili, e deve difendere tutti i beni che la dignità della persona porta con sé. Ne esiste uno che bisogna sempre ricercare in modo particolare: la libertà personale»[20].

Quando parlava del lavoro come luogo di incontro con Dio, san Josemaría era solito precisare che si tratta di «santificare il proprio lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri per mezzo del lavoro»[21]. Il lavoro configura e trasforma tanto la persona che lo realizza quanto la realtà sulla quale opera, ossia il mondo[22]. In questo senso si potrebbe dire che la santificazione del lavoro è, nello stesso tempo, la via perché una persona si avvicini a Dio e perché le strutture temporali siano redente: collaborare a quel movimento mediante il quale il Signore attrae tutti a sé (cfr. Gv 12, 32).

Il rischio del cristianesimo borghese, ovvero la perdita del senso di missione

«Non ti imborghesire!», era solito dire san Josemaría[23], per mettere in guardia da un rischio che si corre nella vita spirituale: quello di finire con l’evitare tutto ciò che richieda impegno, ignorando la esigenza che pervade il Vangelo dall’inizio alla fine. Queste righe di Solco descrivono, con un pizzico di ironia, questo cristianesimo imborghesito: «Ideologicamente sei molto cattolico. L’ambiente della Residenza universitaria ti piace... Peccato che la Messa non sia a mezzogiorno, e le lezioni nel pomeriggio, per poter studiare dopo cena, sorseggiando uno o due bicchieri di cognac! – Questo tuo ‘cattolicesimo’ non corrisponde al vero, resta un semplice imborghesimento»[24].

È importante tenere presente che si può parlare di cristianesimo borghese anche in un altro senso, complementare a questo. Si tratta di una concezione della vita religiosa nella quale è rimasto oscurato o è stato dimenticato il forte senso di missione del messaggio evangelico. In questa prospettiva, la vita spirituale tende a ridursi al compimento personale di alcune norme morali e di una serie di pratiche di pietà. Sembra che ci si dimentichi di quella richiesta del Padrenostro - «venga il tuo regno» - che spinge i credenti a trasformare il mondo con il loro lavoro e con la loro preghiera. Per usare le parole di san Josemaría, la chiamata a «santificare gli altri con il lavoro» finirebbe col ridursi, nel migliore dei casi, a un apostolato individuale, senza la prospettiva di trasformare il mondo; o resterebbe nascosta dietro alle precedenti - «santificare il lavoro e santificarsi con il lavoro» -, che a loro volta perderebbero quasi tutta la loro ragion d’essere.

Il cristianesimo borghese, in questo secondo senso, sarebbe una delle manifestazioni della concezione individualista della religione dalla quale metteva in guardia Benedetto XVI. Ancora una volta, non ci troveremmo tanto davanti alla conseguenza di una scelta individuale, quanto davanti al risultato di una concezione della vita che, attraverso la cultura e l’educazione, è andata configurando quasi impercettibilmente la mentalità delle persone. Infatti, benché il concetto di ‘borghese’ si riferisca a uno status sociale (persone di classe agiata, che nella loro vita non hanno sofferto di gravi carenze né sono state costrette a compiere particolari sforzi per ottenere quello che desideravano), quando qui parliamo di cristianesimo borghese, non vogliamo asserire che sia una caratteristica di questo gruppo sociale. Si tratta, in realtà, di una mentalità che si può riscontrare in persone che appartengono a differenti classi sociali, secondo la quale il valore più alto che si deve perseguire nella vita è la stabilità. Nei suoi scritti san Josemaría invita ad abbandonare questi concetti: «Hai l’obbligo di occuparti di quanti ti circondano, di scuoterli dal loro torpore, di aprire orizzonti diversi e ampi alla loro esistenza imborghesita ed egoista, di complicare loro santamente la vita, di fare in modo che si dimentichino di sé stessi e comprendano i problemi degli altri»[25].

Da un punto di vista religioso, la mentalità borghese appare problematica, perché tende a smorzare il senso di missione. Il cristiano borghese cerca anzitutto la moderazione e la sicurezza. Invece, chi scopre di avere una missione, qualcosa di importante da fare nella vita, è disposto a rischiare e a imbarcarsi in avventure di esito incerto. Il Vangelo è molto esplicito a tal riguardo. Per esempio, nel mostrarci come Pietro, Giacomo e Giovanni «lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5, 11); nel paragonare il regno di Dio a un tesoro nascosto per il quale un uomo è disposto a vendere tutto (Mt 13, 44); o nel ricordare le parole rivolte da Gesù allo scriba che dice di essere disposto a seguirlo dovunque egli vada: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8, 20).

Non c’è dubbio che le persone hanno sempre bisogno di un minimo di sicurezza, e specialmente in tempi così incerti come quelli attuali; il problema sta nel far diventare la sicurezza o la stabilità in valori dominanti, la meta alla quale tendere durante la vita. Chi adotta questa mentalità difficilmente sente la necessità di migliorare le cose e tende ad accontentarsi di quello che c’è, perché non vuole complicarsi la vita. Viceversa, il senso di missione che fa parte del DNA del cristianesimo aiuta a vivere come fosse un’avventura, pensando a quale potrebbe essere il modo migliore di servire Dio e gli altri con la propria professione.

Non perché è ben conosciuto, è meno eloquente a tal riguardo l’incontro di Gesù con il giovane ricco. Questo giovane potrebbe essere considerato il prototipo del cristiano borghese: uno che adempie i comandamenti, che ha buona volontà e anche nobili desideri, ma che non è capace di correre rischi per seguire la chiamata di Gesù. L’ostacolo è costituito dalle ricchezze, che si possono intendere sia nel senso letterale di beni materiali che nel senso della posizione sociale o delle sicurezze raggiunte. Quando Gesù gli dice: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri [...]; e vieni! Seguimi!» (Mc 10, 21) lo sta invitando ad abbandonare le sue sicurezze e a confidare pienamente in Lui.

Il cristiano è «essenzialmente sociale»

Si potrebbe dire che nel cristianesimo borghese la vita religiosa è qualcosa di noioso e prevedibile: una serie di pratiche di pietà, un certo numero di sacramenti, la necessità di lottare e la confessione come una “lavanderia” per togliere le macchie[26]. Invece la religiosità genuina va sempre accompagnata dallo stupore, dalle successive conversioni e dalla scoperta di nuove prospettive, che abitualmente non sono frutto di esperienze straordinarie, ma della perseveranza nella relazione con Dio[27].

Il cristianesimo borghese può portare anche a una deformazione del Vangelo, dalla quale Benedetto XVI mette in guardia nella Spe Salvi: pensare che l’unica cosa importante è che io mi salvi[28]. Sicuramente il Giudizio di Dio sarà personale e non ci si potrà ritenere responsabili delle decisioni che l’altro abbia preso liberamente. Tuttavia la vita cristiana non conduce a una perfezione “egoista”, che ci chiude in noi stessi, ma a una che ripone il centro della vita fuori dall’io: nella donazione, nel servizio, nella rinuncia, nel seguire altri. Una persona non si salva sola, indipendentemente dagli altri. Perciò nel Giudizio personale ci verrà chiesto in che modo abbiamo contribuito a portare il mondo verso Dio, inserendoci nella vita di quelli che sono in cammino accanto a noi (cfr. Mt 25, 31-46). Non possiamo fare a meno di chiederci, dunque, in che modo ci preoccupiamo del bene del nostro prossimo: in che modo stiamo con loro, li consoliamo, li stimoliamo.

Nella Lettera citata all’inizio san Josemaría afferma che «un cristiano non può essere individualista, non può disinteressarsi degli altri, vivere da egoista, voltare le spalle al mondo: è essenzialmente sociale, membro responsabile del Corpo Mistico di Cristo. [...] Il nostro apostolato contribuirà alla pace, alla mutua collaborazione degli uomini, alla giustizia, a evitare le guerre, l’isolamento, l’egoismo nazionale e gli egoismi personali, perché tutti si renderanno conto di far parte della grande famiglia degli uomini, che per volere di Dio ha come meta la perfezione. Contribuiremo così a eliminare l’angoscia, il timore di un futuro di rancori fratricidi e a consolidare nelle persone e nella società la pace e la concordia: la tolleranza, la comprensione [...], l’amore»[29].

In quelle stesse pagine san Josemaría rivela uno dei suoi grandi desideri: «Desidererei grandemente che nel catechismo della dottrina cristiana per i bambini fosse insegnato chiaramente quali sono questi punti fermi, su cui non si può cedere comunque si intervenga nella vita pubblica, e che nel contempo fosse sottolineato il dovere di intervenire, di non astenersi, di collaborare a servire lealmente e liberamente il bene comune»[30].

Questi sono infatti i canali attraverso i quali si propaga l’insegnamento sociale della Chiesa, eliminando una concezione della vita cristiana che si concentra nei doveri religiosi e familiari, ma dimentica i doveri civici[31]. La vita spirituale non ha nulla di “intimista”, né la chiamata a realizzare il regno di Dio si può identificare esclusivamente con lo zelo apostolico personale. Inoltre occorre avere il desiderio di migliorare il mondo per mezzo del proprio lavoro, sia nell’ambito pubblico che in casa. Per far questo è necessario concepire la propria professione come un servizio, vale a dire, come un mezzo per servire Dio e gli altri. «Abbiamo bisogno che il Signore ci allarghi il cuore, che ci dia un cuore a sua misura, perché vi entrino tutte le necessità, tutti i dolori, tutte le sofferenze degli uomini e delle donne del nostro tempo, e specialmente quelle dei più deboli»[32].

Il fatto che alcune legislazioni e alcuni modi di vivere si siano allontanati dal messaggio evangelico dovrebbe farci riflettere su che altro possiamo fare noi cristiani. E anche su che cosa avremmo potuto fare meglio: perché forse certe volte abbiamo smesso di essere lievito, sale, luce. Nella misura in cui – come sostiene san Josemaría – questo non sia dovuto all’egoismo o alla cattiva volontà, ma a una mancanza di formazione[33], è bene domandarsi: che cosa sta venendo meno nella trasmissione della fede? Lì dove si è propagato il cristianesimo borghese, sarà bene risvegliare nuovamente il senso di missione e mettersi al servizio di quel regno di Dio che è già in mezzo a noi[34].

José María Torralba


[1] San Josemaría, Lettere vol. 1, lettera n. 3, 46a, Ares, Milano 2021, p. 178.

[2] Ibidem.

[3] Benedetto XVI, enc. Spe Salvi, n. 16.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem, n. 17.

[6] Ibidem, n. 13.

[7] Papa Francesco, es. ap. Evangelii gaudium, n. 183.

[8] San Josemaría, Lettere vol. 2, lettera n. 8, 1b, Ares, Milano 2023, p. 194.

[9] Papa Francesco, Omelia, 16-V-2020.

[10] Benedetto XVI, enc. Spe Salvi, n. 35.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] San Josemaría, Amici di Dio, n. 210.

[14] Cfr. Benedetto XVI, enc. Spe Salvi, nn. 24-25.

[15] E. Burkhart – J. López, Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di san Josemaría Escrivá. Studio di teologia spirituale, Roma, 2017, vol. I, pp. 394-395.

[16] San Josemaría, Cammino, n. 301.

[17] Cfr. E. Burkhart – J. López, Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di san Josemaría Escrivá. Studio di teologia spirituale, Roma, 2017, vol. I, p. 395.

[18] San Josemaría, Solco, n. 302.

[19] Cfr. Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen Gentium, n. 36.

[20] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 184.

[21] San Josemaría, Colloqui, n. 55.

[22] Cfr. san Giovanni Paolo II, enc. Laborem Exercens, nn. 5-6.

[23] San Josemaría, Forgia, n. 936.

[24] San Josemaría, Solco, n. 716.

[25] San Josemaría, Forgia, n. 900.

[26] Cfr. Papa Francesco, Omelia, 21-III-2017

[27] San Josemaría, Forgia, n. 570.

[28] Benedetto XVI, enc. Spe Salvi, n. 13-14.

[29] San Josemaría, Lettere vol. 1, lettera n. 3, nn. 37d-38a-38b.

[30] Ibidem, n. 45b.

[31] Cfr. Ibidem, n. 46a.

[32] Mons. F. Ocáriz, A la luz del Evangelio, pp. 199-200.

[33] San Josemaría, Lettere vol. 1, lettera n. 3, n. 46a, p. 178.

[34] Cfr. Lc 17, 20.

José María Torralba